mercoledì 26 agosto 2015

BLACK MIRROR - THE NATIONAL ANTHEM


Gli specchi neri esistono?
E' una domanda bizzarra, lo so, e anche poco utile, direte voi. A pensarci bene, a cosa servirebbe uno specchio nero, se non a riflettere un'immagine di noi stessi povera di colore e di dettagli? Le sfumature invece sono il nostro forte, ciò che realmente ci distingue l'uno dall'altro.
Eppure, degli specchi neri, proprio non riusciamo a farne a meno. Ne siamo letteralmente invasi. Li teniamo sulle ginocchia come figliocci da accudire, o nel palmo di una mano come pulcini da accarezzare. Li osserviamo ore ed ore, mentre emanano una luce bluastra e fosforescente che si riflette sulle nostre rughe intorno agli occhi. Sono gli schermi dei nostri computer, dei tablet, dei telefoni portatili, specchi neri con cui ci interfacciamo di continuo e che, anche da accesi, rendono un'immagine distorta di ciò che siamo.

Capire - e accettare - quanto ormai la nostra società sia piena di questi specchi, è il punto di partenza di Black Mirror, una mini-serie in tre episodi (nella 1a stagione) distribuita da Endemol e scritta dall'inglesissimo Charlie Brooker. State comodi, tenete pure acceso il vostro telefono mentre mettete su la prima puntata The National Anthem. Tanto di quel telefono ve ne dimenticherete in pochi secondi. Giusto il tempo di capire che siete stati catapultati in una brutta faccenda, tanto brutta perchè estremamente verosimile, soprattutto di questi tempi. Il primo ministro inglese viene svegliato, di notte, da una telefonata: la principessa d'Inghilterra è stata rapita. Rapita da chi? non ci è dato saperlo. Perchè? Beh è ovvio, per il riscatto. Il premier e i suoi fedelissimi, insieme ai servizi segreti, si chiudono in una stanza, e guardano insieme il video che il rapitore ha postato su youtube e che, in pochi minuti, ha registrato milioni di click. Il video mostra la principessa, legata e imbavagliata, totalmente in preda al terrore. La voce distorta del rapitore, fuori campo, avanza la sua richiesta di riscatto: alle 16 in punto dello stesso giorno, il primo ministro dovrà apparire in TV, in diretta nazionale, e scoparsi una scrofa.

Avete letto bene, una scrofa.

Il sadico gioco appare chiaro: che cosa farà il presidente? Si inginocchierà alle richieste di un folle mettendosi in ridicolo di fronte a tutto il mondo, o lascerà morire la principessa soltanto per evitare la cosmica figuraccia? Il dilemma è tale, e tanto folle, da risultare terribilmente serio. A parte la ridicolaggine in sè, infatti, non c'è niente da ridere. Perchè in ballo c'è molto di più di una figuraccia: c'è la potenza dei media, e soprattutto dei nuovi media. In 60 minuti siamo catapultati dentro un universo di flash news, tv spazzatura, opinioni pubbliche contrastanti e affetti personali completamente disintegrati, il tutto contando minuto dopo minuto le condivisioni su facebook. Ad essere messa sullo schermo, sia tecnicamente (sequenze ultra-rapide, telecamera a spalla, montaggio in sequenza) che semanticamente (sceneggiatura scarna e pungente, reazioni improvvise, cambi di registro repentini) è la capacità esponenziale del messaggio social, ovvero, in termini più semplici, la viralità dei video caricati su internet. Una medaglia questa, come è facile dedurre, a due facce: la popolarità e la capacità comunicativa del mezzo, sono da una parte la fama e dall'altra la distruzione dell'immagine di una persona, soprattutto di un politico.



Il film è estremamente realistico, ed ogni avvenimento successivo assume ancora più importanza dal momento che finisce su internet o nelle news del telegiornale, nella voracità, cioè, dell'informazione istantanea e non filtrata, nel calderone di telegiornali che pur di parlare dell'argomento, ospitano animalisti, psicologi o ammaestratori di maiali.
Intendiamoci, niente è dato per scontato, e c'è anche una buona dose (come vuole la consuetudine) di azione, qualche arma da fuoco, un paio di clichè un po' stantii (soprattutto per quanto riguarda le redazioni televisive e i giornalisti) e due o tre interpretazioni meno convincenti. Eppure, la potenza è innegabile. Il distacco tra realtà e comunicazione è azzerato, la distopia portata all'eccesso, anche se non c'è niente di fantascientifico: il mondo che vediamo è quello reale, e chiarisce (se ancora ce ne fosse bisogno) quanto tutti noi siamo succubi di un mezzo demiurgico che può diventare estremamente pericoloso nelle mani sbagliate. Basti pensare che il messaggio di questa prima puntata (e più in generale della serie) risale al 2011, anno in cui fu prodotta, quando ancora lo spettro dell'IS, dei video costruiti ad arte, delle teste mozzate, non era così radicato e potente come oggi. Eppure, è facile presumere che la frontiera digitale della comunicazione è una sfida tanto aperta e ancora senza regole, che la follia alla base di National Anthem potrebbe accadere domani.

Nella banalità o ridicolezza del riscatto imposto dal rapitore (fare sesso con una scrofa in mondo visione, lo ripetiamo), l'autore Charlie Brooker comunica l'ironia di un mezzo, il social network, dove ogni richiesta, ogni commento, ogni pensiero è plausibile e persino "giusto", se ottiene abbastanza like. E' il retroscena di un'evoluzione ultra-rapida che finisce per ricadere (non senza conseguenze) sui sentimenti e l'integrità morale dell'uomo. Il black mirror sta proprio qua, tra il Bene e il Male, tra l'uso proprio o improprio di un mezzo.  Se è chiaro che ad essere cattivo, semmai, non è il mezzo stesso, ma chi lo utilizza, altra questione è quanto noi tutti, ormai, dipendiamo da lui, dallo schermo, dalla celebrità cibernetica prodotta da un post, dalla sproporzione tra l'ego reale e quello digitale.  Lo ha detto, a chiare lettere, l'autore: "If technology is a drug – and it does feel like a drug – then what, precisely, are the side-effects? This area – between delight and discomfort – is where Black Mirror, my new drama series, is set".
Aggiungiamo che se siamo tutti assuefatti, abusatori e tecno-dipendenti, Black Mirror sarà tuttavia un bel modo di somministrarsi una dose.

Charlton "Charlie" Brooker è nato il 3 marzo del 1971. Fumettista, umorista e presentatore Tv, ha lavorato alla stesura di diverse serie Tv e film-documentari in Inghilterra. Ha collaborato con riviste di videogame e di tv, sempre caratterizzato da una satira visionaria e pessimista. La serie è stata prodotta in Inghilterra dalla Zeppotron e diffusa dalla Endemol UK. Approdata in Italia nel 2013, è stata trasmessa dalla Pay TV Sky Cinema e in chiaro su Rai 4. Nel 2012 è stata prodotta una seconda stagione sempre di 3 episodi. Infine un episodio speciale è stato diffuso nei giorni di natale del 2014. La serie ha vinto l'Emmy Award nel 2012 nella categoria Miniserie o Film TV.

lunedì 20 ottobre 2014

Il critico

Mi piace partire dagli aforismi. Sono diretti, divertenti e spesso ci azzeccano.
Come quando Brendan Behan, un avvinazzato patriottico drammaturgo irlandese degli anni '40, scriveva:

I critici sono come gli eunuchi di un harem: sanno come si fa, lo vedono fare tutti i giorni, però non sono capaci di farlo.

Il mestiere del critico è senz'altro difficile, ma sono convinto che generalizzare sia sbagliato. Lo dico in apertura perché non vorrei che questo pezzo diventasse un j'accuse nei confronti di quella categoria in cui peraltro, spesso, mi sarebbe piaciuto entrare a far parte. Ritengo che per i critici, in particolare quelli cinematografici e musicali, sia un po' come per i vigili urbani. Ci sono quelli che sono fondamentalmente frustrati, e quelli che invece credono nella missione. E la missione, si badi bene, non è per forza fare le multe. Cioè, mi spiego. La multa, così come la stroncatura di un critico, è l'apice di un giudizio negativo con cui il critico (o lo sbirro) determinano una situazione. Ma la missione è qualcosa di diverso. E' la spinta emotiva e personalissima, di scoprire, capire, e soltanto infine valutare. E', cioè, la volontà di muoversi all'interno di un contesto, farne parte, e al tempo stesso giudicarlo esternamente.

Per restare sul paragone, significa che il vigile urbano dovrebbe vigilare, e quindi istruire alle regole, educare il cittadino, col fine ultimo (un po' idealizzato) di contribuire a creare una società migliore. Lo stesso discorso dovrebbe valere per il critico, che ha il compito non di multare le opere scadenti, ma di vigilare, se vogliamo, sulla buona arte, educare il cittadino a comprendere un'opera, e perché no, contribuire a creare una società più sensibile. Purtroppo non sempre è così, per varie cause che abbracciano anche (e soprattutto) fattori economici che inevitabilmente sviliscono la purezza della mission lavorativa. Nel senso che i verdoni determinano l'arte nelle possibilità di creazione dell'opera, mentre penso non dovrebbero influenzarla nella sua valutazione a posteriori. Mi spiego con un esempio. Un cortometraggio che ha un budget di partenza di 100mila euro, fornisce al regista una gamma di scelte anche stilistiche molto più ampia, di chi si ritrova la domenica pomeriggio a intrecciare fil di ferro e cartapesta per realizzare il modellino di una blatta gigante. Il risultato sarà diverso, ma l'arte, fortunatamente, prescinde dal mero valore estetico, e deve gran parte della sua riuscita alle emozioni che lo spettatore prova nell'osservare l'opera. Da qui, una blatta in cartapesta potrà suscitare più paura di un bellissimo effetto 3d, se il primo è usato bene e il secondo no. Ma il problema dei soldi investe la critica perché quando i due film in questione verranno presentati, quello con il budget potrà permettersi di servire e riverire il critico di turno, mentre il secondo no. E questo, negarlo sarebbe meschino, fa la differenza, anche perché tutti dobbiamo mangiare.
Ma la mia riflessione non vuole arrivare a questo. Non mi interessa. Non sogno un mondo dove i critici non vengano pagati, e nemmeno penso che il miglior critico sia il pubblico, anche se spesso è così.

Quello che mi preme, invece, è che nel paragone tra vigilante e critico d'arte c'è una differenza sostanziale. Perché il primo, male che vada, potrà farvi perdere 30 80 anche 200 euro, ma difficilmente vi colpirà nel profondo. Perché a differenza del critico, il vigile non ha a che fare con le vostre passioni, i vostri sogni, ma soltanto con le vostre azioni. Il critico invece ha un potere enorme. Una sorta di giudice delle più pure intenzioni. Con un colpo di penna, ha la responsabilità di comunicare ai suoi lettori che quell'opera ha valore o meno, spesso senza conoscere l'autore, né scavando dentro le ragioni di talune scelte. Insomma, all'imperatore nel Colosseo, non importava se il gladiatore era sposato, se amava il mare, o se l'odore del sangue gli faceva venire il prurito. Decideva semplicemente se il pollice doveva andare su o giù. E questa, cari miei, non è critica, è condanna.
Ma non voglio passare per uno di quei panteisti del virtuosismo che considerano bella qualsiasi merda spacciata per "arte". Non tutti ce l'hanno nel sangue, quella scintilla. Poi c'è chi ce l'ha e non la persegue, e infine chi non ce l'ha per niente. E troppo spesso i critici sono artisti mancati.
Fortunatamente, essi non sono onnipotenti, e la storia ha detto spesso che chi ha spezzato certe regole e dogmi, ha creato nuove correnti, nuove idee e nuova linfa, laddove invece il vecchio si sarebbe accartocciato su se stesso. Ed è proprio qui, secondo il mio modesto parere, la differenza tra un critico scarso e un critico buono. Il primo è colui che ottusamente si rifarà a canoni e stilemi preesistenti, che si muoverà solo per soldi, che valuterà un'opera senza averla vista o ascoltata almeno tre volte, che non penserà ai suoi lettori e al potere che in qualche modo detiene. Il secondo sarà colui che oltre a tutto questo, si renderà conto che a volte bisogna rischiare. Che a volte la verità sta nelle cose piccole. E che il valore del loro lavoro è più grande se votato alla promozione del Bello piuttosto che alla distruzione del Brutto.
E infine, tanto vale che riporti un'altra citazione, visto che racchiude esattamente ciò che penso.

Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio; prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. Ma ci sono occasioni in cui un critico qualcosa rischia davvero. Ad esempio, nello scoprire e difendere il nuovo. Il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni: al nuovo servono sostenitori!

Se vi aspettate Aristotele, De Sanctis o magari un drammaturgo ubriacone irlandese vi sbagliate. Si tratta di Ego, personaggio del cartone animato, Ratatouille, 2007, regia e sceneggiatura di Brad Bird.

giovedì 29 maggio 2014

Il lusso del fallimento

17 anni fa. In una calda sera del 29 maggio 1997, un furgone costeggia il Wolf River poco fuori da Memphis. Alla guida c'è Keith Foti, un ragazzo grassoccio e piuttosto antipatico, con un solo grande pregio: essere il rodie, il ragazzo dei caffè tanto per intendersi, di una delle più belle voci bianche di tutti i tempi, Jeff Buckley. In realtà i due sono amici da tempo, ma Jeff, o meglio Scotty, come qualcuno lo chiama ancora, ha preso il volo. "Grace", il suo primo album, è uscito da tre anni, e due di questi il cantante li ha passati in giro per il mondo a suonare un po' ovunque. Per il momento, i suoi locali preferiti restano i bar fumosi e sporchi dell'America rurale, quella terra del sud intrisa di petrolio e opportunità che è il brodo primordiale dove nascono e proliferano i miti moderni dell'occidente. Ma per Jeff anche quel periodo è finito. Ha già vissuto un periodo a New York, per assaporare il gusto degli anni '90 del Village e dei blue jeans chiari e maglietta bianca, tra Beverly Hills 90210 e Friends. Ma anche quel periodo è finito, non senza nostalgia. Un giorno Buckley disse: «C'è stato un momento della mia vita nel quale potevo semplicemente esibirmi in un cafè e fare ciò che mi piaceva fare, suonare musica, imparare esibendomi, esplorare cosa significasse per me. In quella situazione avevo il prezioso e insostituibile lusso del fallimento, del rischio, della resa. Lavoravo duramente per mettere insieme queste cose, questo lavoro. Mi piaceva e mi mancò quando scomparve. Quello che faccio oggi è tentare di recuperarlo».

Il "lusso del fallimento" dice Buckley. Quell'errore concesso agli emergenti, agli autodidatti, quella verginità culturale che è un libro bianco tutto da scrivere. Lui, quel ragazzo di Anaheim, figlio di un cantautore famoso morto pochi anni prima di overdose, li vede già sbiaditi quei ricordi. Sono già lontani, anche se il tempo trascorso è poco, pochissimo. Per questo, per riabbracciare certe radici, quella calda sera del 29 maggio 1997, Jeff sta viaggiando verso uno studio di registrazione di Memphis. Perchè il suo secondo album deve ripartire da lì, dalla riscoperta del fallimento, del rischio e della resa. Il suo falsetto l'ha reso celebre nel mondo in troppo poco tempo, le grandi star lo hanno già notato ed osannato. David Bowie disse che se fosse finito su un'isola deserta, l'unico album che avrebbe voluto con sè era Grace, pensiero condiviso da Robert Plant e Jimmy Page dei Led Zeppelin; Thom Yorke, frontman dei Radiohead, ammise che quando cantava in falsetto si ispirava al giovane talento americano; un mito come Bob Dylan lo definì uno dei migliori cantautori del decennio.

Tutti si sono accorti di lui. Amato dalle donne, ribelle al punto giusto ma con uno spessore sconosciuto anche ai grandi anti-eroi degli anni 90', da Kurt Cobain in poi. E rispetto a loro, Jeff non ha per nulla intenzione di morire. La vita è dalla sua, anche se lo spettro del padre che lo abbandonò quando aveva ancora il naso sporco, continua a perseguitarlo. Ma lui, che con la sua voce sfiora il paradiso, non ha niente da invidiare al passato. Il mondo è come una grande nuvola, e lui etereo, stralunato e sorridente ci saltella sopra come su un tappeto elastico. Dentro ha il grunge e la musica sacra, sonorità indiane e il pop inglese, l'hard rock e il cantautorato. A soli tre anni dall'uscita del suo primo album, Jeff è tutto e niente, e del suo libro bianco sono state scritte ancora pochissime pagine.


Fa caldo, quel 29 maggio 1997, nonostante l'ora avanzata. Il furgone si ferma vicino al Wolf River, un tranquillo affluente del Mississipi River. I due amici, Jeff e Keith, optano per un bagno. Anzi, è solo lui a voler entrare in acqua. Non si spoglia neanche, ci si infila direttamente con indosso stivali jeans e camicia. Lo ha già fatto molte volte il bagno in quel fiume, lo conosce. Ondeggiando sull'acqua dolce si allontana dalla riva fischiettando Whola Lotta Love degli Zeppelin. Poi scompare.

Lo ritroveranno solo un paio di giorni dopo, il corpo gonfio riverso nell'acqua stagnante, impigliato nelle piante giallognole della riva. La droga e l'alcol, assicurano la madre e gli altri, non c'entrano niente. Ma poi in fondo, chissenefrega. Sembra davvero inutile cercare di tenere pulita l'immagine sociale di un ragazzo distante da canoni e stili, di un ricercatore estatico delle emozioni umane, di un cantautore pellegrino che dalle sue incertezze e debolezze, tirava fuori delle ottave impossibili, da sovrapporre a organi, chitarre, batterie, o anche al semplice silenzio. Come era accaduto nel 91' nella nella chiesa di St. Ann di Brooklyn, quando ad un concerto in omaggio di suo padre, a Jeff si era rotta la chitarra, e lui aveva continuato a cantare a cappella, spettrale, diafano, in qualche modo già immortale.

All'epoca si pensò che gli angeli erano dalla sua, considerando il dono di una voce così soffice, pulita, languida. Poi la tragedia lo inserì tra i miti maledetti di quegli anni. Ma lui, che probabilmente non amava le categorie, avrebbe semplicemente detto: There's the moon asking to stay | Long enough for the clouds to fly me away | Well it's my time coming, I'm not afraid, afraid to die.

Buon compleanno, Jeff.

lunedì 24 febbraio 2014

Extinction will take it slow

Danger

Luci di emergenza: ON

Stroboscopìe bluastre che non indicano via d'uscita: non ce ne sono.
Ultimi baluardi di controllo: OFF

Il mondo è ridotto ad un bunker bianco, quattro mura slavate, dove rinchiudersi in attesa dell'ultimo giorno. I segnali c'erano, già da tempo. Inquinamento, cicloni, eclissi, frammenti di un puzzle che oggi prende forma.

Il momento è arrivato, pregasi sgombrare la Terra. Il deperimento è lento, inesorabile. Serve un'accelerata. Pregasi premere il gas. Portare all'estremo la reazione, per evitare la nostalgia.
L'estinzione è un processo che parte quando una cosa si crea. Una stella nasce e brucia fino all'esaurimento, una vita si genera e comincia il suo decadimento, una canzone inizia e da allora, ogni secondo sarà  un passo verso la conclusione.
Verso l'estinzione appunto.

Quando arrivano i terremoti, la malattia, le onde sonore, sferzano l'aria come echi elettronici, vampate di fuoco e gelo, e pulviscolo celeste. La razza umana è allo stremo. Ciclico, torna il tempo tribale della danza per la sopravvivenza. Tornano le origini della specie, come flash ultrarapidi di una vita, un attimo prima di schiantarsi al suolo.

La fine della specie è vicina, non resta che adattarsi, ancora una volta. Possiamo rallentare adesso. Per ricominciare da capo, per ripartire da zero, c'è ancora tempo. Extinction will take it slow.

C'è ancora tempo, per una canzone.






lunedì 3 febbraio 2014

Fiabe elettroniche del post-celluloide

C'era una volta, nei lontani e kubrickiani anni 2000, un nucleo informe ed eterogeneo di esseri che pur essendo umani presentavano notevoli differenze rispetto a noi. Sul totale della popolazione (circa 7 miliardi di individui alla fne del 2011) che abitavano esclusivamente l'antico pianeta Terra, questi esseri speciali erano qualche decina di milioni, percentuale in costante calo e che di lì a poco si sarebbe azzerata.
Il nucleo in questione, stando alle ricostruzioni, era dedito ad azioni e prese di posizione assolutamente "bizzarre", in seguito tacciate come pericolose. Ma pur all'interno del nucleo, non tutti erano uguali. Come razze diverse della stessa specie, ogni essere era dissimile dall'altro, ma presentavano tutti un minimo comune denominatore: spendevano le loro brevissime vite a cercare di raccontare sogni.
Certo, il mondo dell'epoca lo permetteva. C'erano sogni di tutti i tipi, da raccontare. Non come oggi. A quel tempo, ancora, resistevano le "modalità di scelta". Non opzioni pre-marcate, come oggi, bensì qualcosa di diverso: una sorta di costruzione mentale, di esercizio neuronale con il quale quell'esiguo nucleo di persone  realizzava i propri desideri sotto forma di un paio di attrezzi speciali: una forma di comunicazione detta "arte" e uno stile di vita detto "indipendenza" o "libero arbitrio".
Cose assurde, già.

Anche se oggi si tende a minimizzare il fenomeno, molti ritengono che all'epoca il mondo fosse pieno di queste speciali forme di vita. Il pianeta brulicava di queste persone non ancora uniformate, standardizzate o timbrate, che spesso (per derivazione) venivano chiamati con l'appellativo di "artisti", per differenziarli da quelli che già si erano incamminati sul binario unico del futuro. Tra loro, gli "artisti", c'era grande varietà. C'era chi preferiva la musica, chi il colore della pittura, chi la "videocamera", chi il "teatro", chi lo sport o la cucina. Tante foci diverse, ma un'unica sorgente. Tutti erano malati allo stesso modo, di un morbo odioso che si insinuava nel cervello e imponeva al soggetto di non avere obblighi, e soprattutto di seguire l'istinto, di trovare nuove modalità di comunicazione. Ecco sì, era quella la cosa più importante, a quanto pare. Comunicare. Comunicare indipendenza e indipendenza nel comunicare. Già in anni pur così arretrati, infatti, si cominciavano a vedere le briglie, quei confini messi al dialogo che oggi sono la norma. Si cominciavano a mettere limiti alle parole, ai caratteri, al volume, alla morale, ma qualcuno ancora resisteva. Se ne aveva la sensazione entrando in qualche locale la sera tardi, o sedendosi su poltrone rosse in un teatro di periferia. Se ne percepiva l'essenza entrando in scuole che, seppur con certi codici, incitavano addirittura a sviluppare e seguire quell'istinto, ad accogliere dentro di sé quel morbo. Se ne aveva riprova tangibile quando ci si rinchiudeva in qualche "sala cinematografica" a vedere qualche film in post-celluloide, cosiddetto "digitale", per differenziarlo da qualcosa di "analogico" che sopravviveva come vestigia di un passato lontano. Lo si capiva se per puro caso ci si imbatteva in uno di quei soggetti, magari in uno in cui l'agente patogeno aveva già raggiunto uno stadio avanzato di sviluppo. Allora si percepiva una sorta di estasi emozionale, uno spirito di incredibile forza e voracità con il quale il soggetto tentava di raggiungere e migliorare la sua peculiare forma di comunicazione. Si spingevano oltre i limiti consentiti dalla morale collettiva per esprimere un concetto e renderlo pubblico.
E ciò che ne scaturiva erano autentici pezzi di universi paralleli, oppure di realtà diverse, distanti, espresse con note, parole o volti fissati attraverso uno schermo.

Di quel coacervo informe, di quel nucleo di persone anormali che tentavano irrimediabilmente di dirci qualcosa, di trasmetterci un qualche strano messaggio, ben poco è rimasto. Ma in chi ancora ricorda qualche storia tramandata da quel periodo, è facile percepire una sorta di curiosità, e pure di nostalgia.
Forse che tra tutti quei sogni, ce n'erano alcuni che valeva la pena tramandare?
Una domanda che ormai appartiene irrimediabilmente al passato...

tratto da "Fiabe elettroniche, vol. 2, Comunicazioni Parallele"
anno 2754